Il culto della Madonna del Rosario e gli ultimi frati domenicani del convento di Gallipoli

Pubblicato il 1° ottobre 2022 su Il pensiero mediterraneo


Era l’alba del 7 ottobre 1571, quando le acque di Lepanto, nome medievale dell’odierna città greca di Naupatto posta sulla costa settentrionale dello stretto che separa il Golfo di Corinto da quello di Patrasso, furono teatro di una delle più celebri battaglie della storia della cristianità.

A fronteggiare la terribile flotta dell’Impero Ottomano capeggiata dal crudele Alì Pascià, protagonista di un forte movimento espansionistico che stava tentando di sottomettere l’Europa alla religione musulmana, fu la grande Lega Santa formata dalla Repubblica di Venezia, dall’Impero Spagnolo con il Regno di Napoli e di Sicilia, dalla Repubblica di Genova, dai Cavalieri di Malta, dal Ducato di Savoia, dal Granducato di Toscana, dal Ducato di Urbino e dallo Stato Pontificio.

Prima di partire dal porto di Messina, Papa Pio V, che aveva sapientemente costruito tale alleanza, benedisse la flotta guidata dal principe don Giovanni d’Austria affidandola alla protezione della Vergine Maria.

Sembra che quella mattina, una domenica, mentre si combatteva e si moriva per Cristo e per la Patria, i prigionieri incatenati ai remi delle maestose galee remassero recitando il Rosario e ritmando il tempo a suon di Misteri.

La battaglia dai contorni epici, destinata a cambiare le sorti della storia dell’intero Occidente, si concluse con una sorprendente vittoria della flotta Santa ed il trionfo fu attribuito proprio al potere di questa pratica devozionale e all’intercessione della Madonna, tanto che l’anno successivo, a perenne memoria del fausto evento, il domenicano Pio V istituì la festa di Santa Maria della Vittoria, trasformata nel 1573 dal successivo pontefice Gregorio XIII in Festa della Madonna del Rosario, da tenersi la prima domenica di ottobre per l’Ordine dei Domenicani e per le Confraternite del Santo Rosario.
Infine, nel 1888, venne estesa all’intera Chiesa, mentre nel 1913 Papa Pio X la riportò al 7 ottobre, lasciando comunque alla prima domenica dello stesso mese la solenne celebrazione liturgica.

Sebbene la preghiera del Rosario, attribuita all’apparizione della Vergine Maria a San Domenico nel convento francese di Prouille da lui fondato, risalisse al XIII secolo e fosse già in uso, la festa venne istituita più di tre secoli dopo divenendo nel tempo uno degli appuntamenti più importanti dell’intero anno liturgico.

Anche nel Salento tale devozione si diffuse rapidamente tra la gente, soprattutto grazie all’opera evangelizzatrice dei Domenicani. Nel 1517, arrivando a Gallipoli, i padri predicatori costruirono il loro convento sulle macerie di un vecchio monastero basiliano da anni ormai in disuso, impossessandosi anche dell’antica chiesa attigua dedicata a S. Maria delle Servine, anch’essa appartenuta ai religiosi del rito greco – bizantino ma bisognosa di restauro o addirittura di ricostruzione.

L’opera dei nuovi religiosi procedette in maniera spedita portando in breve tempo anche alla nascita della Confraternita del Rosario con sede oratoriale proprio nel monastero appena ricostruito.

Ma la loro fiorente ed apprezzata attività religiosa, oltre che culturale, dopo quasi tre secoli ebbe una battuta d’arresto con la sciagurata età napoleonica che portò alla soppressione degli Ordini monastici. Il convento gallipolino, infatti, venne soppresso nel 1809 insieme ad altri 33 monasteri della Provincia di Terra d’Otranto, per un totale di ben 250 conventi chiusi in tutto il Regno di Napoli.

Fortunatamente, con la Restaurazione ed il ritorno dei Borboni, alcuni conventi pugliesi furono ripristinati; quello di Gallipoli fu riaperto nel 1820, come testimoniato da una lapide commemorativa in marmo presente proprio all’entrata dello stesso.

Osservando le alte mura dell’attuale chiesa ricostruita tra il 1696 e il 1700, la sua splendida facciata in carparo, gli altari baroccheggianti e finemente intarsiati, le preziose tele, le numerose statue e raffigurazioni di San Domenico insieme a quelle di altri santi, l’antico organo Chircher del 1720 e ormai muto da almeno un secolo, le austere lapidi sepolcrali presenti sul pavimento, quel che resta del famoso affresco raffigurante la Battaglia di Lepanto situato nella porzione di chiostro rimasta di proprietà della confraternita, mi sono sempre chiesto quali fossero i nomi, i volti, le età dei frati che popolavano quelle mura e che vivevano a stretto contatto con tanta bellezza artistica, riunendosi giornalmente all’alba e al tramonto in quel coro ligneo posizionato sul retro dell’altare maggiore.

Qualche mese addietro, conducendo una ricerca storico-musicale e quindi di tutt’altra natura e con altri obiettivi, ho trovato parziale risposta alle mie curiosità: mi sono imbattuto, infatti, con mia grande gioia, nel cosiddetto foglio di famiglia del Convento dei Domenicani risalente al 1851, dal quale risulta che in quell’anno, e sicuramente fino alla sua chiusura definitiva del decennio successivo, il monastero gallipolino era abitato da:

Fra Gregorio Vergari, nato a Nardò, di anni 49, Priore,

Fra Vincenzo del Zio, nato a Ruvo di Puglia, di anni 39, Padre maestro,

Fra Gabriele Vergari, nato a Nardò, di anni 68, Sotto Priore,

Fra Vincenzo d’Alevi, nato a Miglionico, di anni 32, Monaco,

Fra Luigi Salvemini, nato a Molfetta, di anni 33, Monaco,

Fra Nicola Manduca, nato a Modugno, di anni 78, Converso,

Fra Giuseppe Avigliani, nato a Nardò, di anni 42, Converso,

Angelo Gigante, nato a Gallipoli, di anni 33, cuoco,

Vincenzo Alemanno, nato a Gallipoli, di anni 16, domestico.  

Purtroppo, dopo la tanto attesa riapertura, con l’Unità d’Italia ed in ottemperanza alle Leggi Siccardi del 1850, questo convento venne soppresso definitivamente con Regio Decreto del 17 febbraio 1861 insieme a quello dei Francescani e dei Paolotti presenti in città. Tutti i frati lasciarono Gallipoli, rimase solo Fra Vincenzo del Zio, rettore della Confraternita del Rosario dal 1854 all’anno della sua morte avvenuta l’8 novembre 1890.

Ancora oggi, dopo più di un secolo e mezzo, in ogni angolo della chiesa, attuale sede dell’antica confraternita, e soprattutto nei giorni della festa della Beata Vergine del Rosario, sembra quasi di ascoltare i passi, i canti e il salmodiare di quei frati dal lungo abito bianco e dalla mantella nera, che fanno echeggiare ancora una volta quello spirito di profonda fede e di grande devozione religiosa che, per molti secoli, hanno trasmesso a tante generazioni.

Luigi Solidoro

La pastorale di Clatinoro a Gallipoli: una tradizione lunga un secolo

Pubblicato il 20 dicembre 2021 su Il pensiero mediterraneo


Si è svolta ieri, come da antica tradizione, la “Pastorale di Clatinoro” organizzata dal signor Antonio Cataldi e dalla sua famiglia. Quest’anno, per via delle restrizioni dovute alla pandemia, la manifestazione musicale ha subìto dei cambiamenti rispetto alle modalità degli scorsi decenni: il gruppo dei musicanti reclutati dal signor Antonio, infatti, non ha percorso alle prime luci dell’alba le suggestive stradine del centro storico di Gallipoli al suono della tradizionale nenia natalizia, ma si è ritrovato direttamente nella Chiesa di San Francesco d’Assisi alle ore 08:30 per partecipare alla celebrazione liturgica presieduta dal parroco don Piero De Santis, suonando la dolce composizione durante le parti variabili della messa, ossia all’ingresso, all’offertorio, alla comunione ed alla conclusione.

Questa manifestazione musicale è la più antica nel suo genere tra quelle che si svolgono in questo periodo nella cittadina ionica in quanto ha una storia lunga e singolare. Sono in pochi, infatti, a sapere che l’ideatore non è stato il signor Clatinoro Cataldi, dal quale da decenni ha preso il nome, bensì i suoi genitori, Pantaleo e Melania (chiamata da tutti Melanìa, conosciuta per la sua forza e la sua brillantezza), i quali avevano avuto una figlia nata con problemi di salute e soprattutto affetta da cecità. Per tale motivo le diedero il nome di Lucia, con la volontà di affidarla al soccorso della santa protettrice della vista. La signora Melanìa, morta alla veneranda età di 97 anni, alla nascita della figlia cieca decise di organizzare un corteo musicale portando per le strade cittadine la musica della Pastorale gallipolina la domenica successiva al 13 dicembre (giorno della festa di Santa Lucia) e concludendo la manifestazione con la celebrazione della messa nella Chiesa di Santa Maria della Purità alla quale prendevano parte tutti gli intervenuti.

Tale manifestazione è stata mantenuta anche dopo la prematura scomparsa della figlia non vedente e da allora non si è mai interrotta poiché, dopo la morte della signora Melanìa, il figlio Clatinoro, suonatore di mandolino e mandòla, ha proseguito l’organizzazione dell’evento fino al dicembre del 1973, ultimo Natale prima della sua scomparsa, avvenuta l’8 settembre 1974 all’età di 64 anni. Il signor Clatinoro curava personalmente anche la preparazione musicale tenendo numerose prove nelle settimane che precedevano l’evento. Inoltre, durante l’esecuzione per le strade regnava un solenne silenzio e, nonostante l’ora notturna, molte erano le finestre e le porte di casa che si aprivano per ospitare i musicisti infreddoliti ristorandoli a suon di cioccolata calda, anice, taralli, cozze ripiene di mostarda, purciaddruzzi ed ogni altro ben di Dio che regna ancora oggi sulle tavole dei gallipolini nel periodo natalizio.  Oggi i tempi sono cambiati e di finestre o porte di casa se ne aprono ben poche, non fosse altro per il numero esiguo di persone che abitano stabilmente nel centro storico.

Dal dicembre del 1974 e sino a ieri il signor Antonio, figlio di Clatinoro, ha continuato tale tradizione con lo stesso amore e la stessa devozione del padre e dei nonni, ospitando e rifocillando nella sua casa paterna, sita in Via Sant’Angelo, i musicisti e tutti i partecipanti che, dotati di un grande amore per le tradizioni, volontariamente decidono di sfidare il freddo ed il vento gelido delle strade gallipoline.

Risulta chiaro, quindi, che questa tradizione, nella sua semplicità, ha alle spalle una storia lunga più di un secolo e rientra a pieno titolo tra quelle manifestazioni autoctone che rendono la città di Gallipoli unica ed affascinante agli occhi di chi la vive ogni giorno ma anche a quelli di chi la osserva solo da lontano o in alcuni periodi dell’anno.

Tradizioni semplici ma ricche di storia e ancora oggi presenti nelle pieghe del vissuto quotidiano che bisogna tutelare e preservare dal rischioso “modello globale” che tende a cancellare la memoria, l’identità e le caratteristiche peculiari dei territori e delle comunità, consapevoli che, come affermava J. Jaurès, “tradizione non significa conservare le ceneri ma mantenere viva la fiamma”.

Nel video allegato si può ascoltare una rarissima registrazione su nastro a bobina della pastorale gallipolina eseguita nel 1969 dai musicanti “storici” di Gallipoli: Clatinoru Cataldi, mesciu Ninu Trumbetta (Giovanni Carrozza), mesciu Nandu Carrozza, Cintuzzu (Giacinto Serrano), Bertu Bresciani, Pippi Sansò, Pizzazzara (Salvatore Monterosso).

Serafino Marinosci (1869 – 1919): la Messa da Requiem del frate – musicista

Pubblicato su Il pensiero mediterraneo il 7 novembre 2021


Frate Serafino della Purità di Maria Santissima, al secolo Francesco Marinosci, nacque a Francavilla Fontana (BR) il 17 aprile del 1869 dove, in tenera età, fu avviato allo studio della musica nel Convento di Santa Maria della Croce dai maestri Trisolini per l’organo, Sarago per il violino e Malagnini-Cazzella per la composizione, quest’ultimo noto per essere stato allievo di Gaetano Donizetti. Aderendo inizialmente agli Alcantarini e dal 1897, in seguito alla promulgazione della bolla Felicitate quadam di Papa Leone XIII, all’Ordine dei Frati Minori, trascorse un anno da novizio presso il Convento della Madonna della Grazia in Galatone (LE), trasferito successivamente al San Pasquale in Taranto, poi al San Giacomo in Lecce ed infine al San Pasquale a Chiaia, in Napoli, dove continua i suoi studi musicali con maestri di elevata caratura, quali Camillo De Nardis, Paolo Serrao, Nicola D’Arienzo e Oronzo Mario Scarano. Qui in Napoli si spense il 21 novembre 1919, proprio nel giorno della vigilia della festa di Santa Cecilia, patrona della musica.

La sua produzione artistica fu incentrata sulla musica sacra liturgica, ma si dedicò anche alla composizione di musica salottiera molto in voga in quegli anni, realizzando un numero considerevole di brani strumentali ballabili e musicando una serie di romanze dalla spiccata vena melanconica, sempre di ottima fattura musicale ma oggi poco conosciute. Prediligendo le piccole forme, utilizzò un linguaggio musicale intimista e sentimentale dotato di grande immediatezza, sorprendente per la freschezza e la semplicità compositiva, quasi essenziale e mai banale, e per la capacità di suscitare forti emozioni anche nell’ascoltatore più esigente.

La Messa da Requiem è la messa per i defunti, così chiamata dalla prima parola del suo introito: Requiem aeternam dona eis, Domine, (“L’eterno riposo dona a loro, oh Signore”, ovvero la preghiera d’invocazione per i defunti).
Si articola in nove sezioni: Introito (Requiem), Kyrie, Graduale, Tratto, Sequenza (Dies irae), Offertorio, Sanctus et Benedictus, Agnus Dei, Communio (Lux aeterna). A queste solitamente i compositori nel musicarla hanno aggiunto il Libera me, Domine e In Paradisum che fanno parte dell’Ufficio della sepoltura che, di regola, avviene alla fine della messa.
Nella liturgia eucaristica della Chiesa cattolica, la Messa da Requiem è celebrata come messa esequiale o votiva, in occasione di anniversari e nel giorno del 2 novembre, data in cui la Chiesa commemora tutti i fedeli defunti. Secondo la dottrina cattolica le messe in suffragio dei defunti che si trovano in Purgatorio possono abbreviare la loro permanenza di espiazione, a favore di un più celere passaggio al Paradiso.
La drammaticità di questo testo sacro, nella lunga tradizione che va dal Rinascimento ai giorni nostri, ha ispirato innumerevoli compositori che hanno creato dei capolavori musicali immortali e di altissimo livello.

Lontana dalla complessità architettonica della celebre composizione di W. A. Mozart o dalla monumentalità di quella di G. Verdi, la Messa da Requiem del Marinosci sembra quasi rispettare la regola francescana, adoperando un linguaggio musicale privo di fronzoli ornamentali o di superflui arricchimenti fini a sé stessi, tentando quasi di dare voce a quella povertà e a quell’essenzialismo al quale egli aveva consacrato la sua esistenza. Sono questi, infatti, gli elementi caratterizzanti il mondo sonoro che il nostro frate ci consegna, frutto della sua più intima religiosità unita alla cultura ottenuta dagli studi teologici compiuti. Una musica, la sua, che traspira profonda fede e che, sempre in stretta relazione con il testo, riesce a rivestire ogni singola parola di una solennità quasi sacra, cercando e trovando quel giusto equilibrio tra estro artistico personale e i dettami divulgati dal Cecilianesimo ed esplicitati nel Motu proprio Inter pastoralis officii sollicitudines di Papa Pio X il 22 novembre 1903.

Padre Serafino adottò con convinzione quelle indicazioni nella realizzazione della sua Messa, composta nel 1908 per due voci simili e organo, eliminando dalla sua penna ogni elemento che potesse rimandare al mondo del melodramma operistico che contaminava l’intero repertorio liturgico sacro già dalla seconda metà dell’800, orientandosi verso lo stile gregoriano e la polifonia cinquecentesca.
Abbandonò, dunque, quel lirismo donizettiano o belliniano che caratterizzava la sua celebre Via Crucis  composta nel 1895 (clicca qui per gli spartiti), che gli aveva fatto valicare i confini non solo del suo convento ma anche quelli provinciali e regionali insieme a Le ultime sette parole di N.S.G.C. sulla Croce, approdando perfino nelle rinomate Basiliche partenopee e romane ed ottenendo ovunque lusinghieri consensi da parte di Vescovi, Cardinali e finanche dal Papa in persona, per fare posto ad un nuovo stile compositivo completamente al servizio della Chiesa ma che, allo stesso tempo, riusciva ancora una volta a giungere spedito al cuore dei fedeli oranti poiché ricco di fervente devozione e di quella dose di sentimento che avevano caratterizzato la sua produzione musicale fin dal primo esordio.

Dietro un apparente semplicità della linea melodica, si nasconde infatti una filigrana armonica ricercata che procede in stretto contatto con il significato del testo. Le quattro parti affidate all’organo si muovono in maniera sapiente e oculata, creando continuamente un grande pathos grazie anche all’utilizzo di frequenti cambi di tonalità, non solo ai toni vicini, ma anche a quelli lontani rispetto alla tonalità d’impianto, sperimentando modulazioni inusitate ma che all’orecchio risultano efficaci e ben riuscite, al pari della musica di don Lorenzo Perosi.

Padre Serafino sicuramente compose quest‘opera non come brano da eseguirsi in concerto ma per un uso adeguato alla liturgia e, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, la concepì in tonalità maggiore.
In queste pagine, infatti, ritroviamo una musica priva di quella vena melanconica che lo ha sempre contraddistinto, rimandandoci a quell’idea francescana di una morte semplice e discreta, libera dal peso dell’angoscia e dal dolore. Una morte, oseremmo dire, che guarda direttamente al Paradiso. Sono assenti, infatti, quelle ambientazioni cupe o drammaticamente spettrali tipiche di questo genere musicale, mentre prevale un’atmosfera di dolcezza che può essere concepita come un abbandono nelle braccia amorevoli del Padre celeste.

L’attacco iniziale risulta anche privo di qualsiasi preambolo strumentale, mentre l’agogica oscilla dal Lento con molta espressione dell’Agnus Dei all’Agitato del Dies irae, tema melodico, questo, che ritorna nel Rex tremendae, nel Lacrymosa e nel Dies illa del Libera me, Domine con la chiara volontà di voler creare un unicum dell’opera, superando la consuetudine di musicare una serie di brani autonomi ed indipendenti.

Dopo averlo rimandato per più di un anno per vari impedimenti, ho deciso di pubblicare in anastatica un originale a stampa della partitura della Messa da Requiem di Frate Serafino Marinosci, edita nel 1920 dalla casa editrice Raffaele Izzo di Napoli assieme ad altre composizioni dello stesso autore, con la ferma volontà di renderla più facilmente fruibile e di rivalutare, a poco più di cento anni dalla sua scomparsa, la figura di quel frate – musicista che con la sua arte ha segnato profondamente il repertorio sacro, liturgico e tradizionale dell’intero meridione d’Italia di fine ‘800 e dei primi decenni del ‘900.

L’originale a stampa da me posseduto, oltre ad essere contrassegnato con numerose indicazioni agogiche e con segni di espressione tipici di un professionista della musica, reca sul frontespizio la firma Rescigno, un cognome che fa subito balzare alla mente la figura di uno dei più grandi direttori d’orchestra di tutti i tempi, Nicola Rescigno, nato a New York nel 1916 e morto a Viterbo nel 2008. Tutti piccoli ma significativi indizi che mi fanno fantasticare sul precedente proprietario dello spartito.

La Messa da Requiem che ripropongo è certamente un’opera di alto valore storico e musicale che apparentemente potrebbe non rispecchiare le esigenze di mercato di una casa editrice odierna ma che, sicuramente, non può mancare nella biblioteca personale degli studiosi del settore e degli appassionati di musica e di storia locale.  

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