Mese: Marzo 2021

La Marcia Funebre per i funerali di Pio IX (Vincenzo Alemanno)

Breve intervista a Luigi Solidoro e recensione della sua nuova pubblicazione.
Leggi sulla rivista culturale Il Pensiero mediterraneo, 26 marzo 2021.


In occasione del periodo di Quaresima 2021, è uscito nei principali book store internazionali il nuovo lavoro del M° Luigi Solidoro, da tempo attivo nel campo della ricerca storico-musicale.

Si tratta della trascrizione per pianoforte di una Marcia funebre composta dal gallipolino Vincenzo Alemanno, attivo come organista nel XIX secolo nelle principali Chiese di Gallipoli. Una composizione tratta dalla sua Messa di Requiem e composta, su commissione del Rev.mo Capitolo della Città di Gallipoli, per i Solenni Funerali di Papa Pio IX, celebrati nella Chiesa Cattedrale di Sant’Agata, sabato 16 marzo 1878 (quando l’Alemanno era organista contemporaneamente presso la stessa Cattedrale di Sant’Agata, la Chiesa del Carmine e la Chiesa delle Anime). Il documento, di straordinaria importanza per tutti gli studiosi e per tutti gli appassionati delle tradizioni e della musica del Salento, è posseduto in originale dallo stesso Solidoro assieme ad altre composizioni inedite del maestro Alemanno.

L’introduzione storico-musicale del volume, curata dalla dott.ssa Laura De Vita, oltre a descrivere le caratteristiche peculiari formali e stilistiche di questa composizione, svela finalmente anche la data ed il luogo di morte dell’Alemanno, rimasti fino ad oggi sconosciuti.

L’Ufficiale dell’Anagrafe del Comune di Gallipoli non ha potuto mai comunicarmi la data ed il luogo del decesso, rimasti sconosciuti per oltre un secolo. Le difficoltà nel rintracciare questi dati derivavano, da un lato, dall’assenza di annotazione dell’atto di morte sul foglio di nascita del compositore, risalente all’anno 1827 e, dall’altro, dalla totale assenza del nome di Vincenzo Alemanno nei registri dei morti di Gallipoli post 1913. Dopo attente e faticose ricerche condotte autonomamente su tutto il territorio della Provincia, sono riuscita finalmente a ripercorrere le orme dell’Alemanno scoprendo il Comune dove si era trasferito negli ultimi anni di vita e, conseguentemente, anche la data precisa della sua morte” spiega Laura De Vita. Un prezioso tassello che si aggiunge così al già ricco patrimonio artistico-musicale della ridente Kale Polis jonica, i cui abitanti sono intimamente e gelosamente legati alle proprie tradizioni, alla propria storia e alla propria eredità culturale. 

Il volume, edito da Youcanprint nel febbraio 2021, può essere acquistato in tutti i principali bookstore, sia in formato digitale, sia in formato cartaceo.

Luigi Solidoro e Laura De Vita, marito e moglie nella vita, hanno in comune la passione per la ricerca storico musicale, tanto da pubblicare, nel 2019 e nel 2020, due monografie sulla vita e le opere di due importanti compositori: Francesco Luigi Bianco, molto amato per le sue frottole del venerdì dell’Addolorata, ed Ercole Panico, discusso ed acclamato capo fanfara in terra d’Otranto nella seconda metà del XIX secolo. 

La marcia funebre – spiega il maestro Solidoro – è una composizione musicale che fa parte del più ampio genere della marcia, cadenzata sul passo umano e destinata, fin dalle sue origini nel XVII secolo, ad accompagnare i movimenti dei cortei militari. Un genere musicale che è stato poi utilizzato durante il trasporto del feretro per funerali dei reali e dei personaggi illustri e che, dalla prima metà del XIX secolo, ha avuto un notevole incremento, quando a cimentarsi in esso furono i più grandi musicisti del tempo come L. Van Beethoven e F. Chopin. In particolare, la Marcia funebre del terzo movimento della Sonata n. 2 op. 35 in si bemolle minore di Chopin è, ancora oggi, la più eseguita in tutto il mondo: un vero e proprio capolavoro di melodia e di espressività che ha costituito un modello seguito dai compositori successivi che hanno voluto cimentarsi con questo genere musicale”.

Il solitario canto funebre che caratterizza queste composizioni riesce, in maniera unica e senza eguali, a far meditare profondamente gli ascoltatori sul misterioso destino che spetta ad ogni uomo una volta terminata l’esperienza terrena, mettendo in luce lo strazio del distacco e la speranza della pace eterna. Per queste caratteristiche, le marce funebri costituiscono la colonna sonora del periodo quaresimale e, in particolar modo, dei Riti della Settimana Santa, indissolubilmente legati all’antica dominazione spagnola nell’Italia meridionale: “Impossibile oggi pensare al lento e grave incedere dei confratelli incappucciati durante le processioni senza pensare al suono, ora delicato e struggente, ora maestoso e raggelante, delle marce funebri eseguite dalle bande musicali cittadine”, continua il M° Solidoro “In tutto il Meridione d’Italia, i repertori bandistici hanno una base comune, costituta da celeberrime marce come quella di F. Chopin e quella di A. Vella, e una componente variabile, costituita da numerose composizioni di autori locali, sia del passato che contemporanei, che costituiscono un prezioso patrimonio identitario della specifica comunità di riferimento. Un bagaglio di cultura e di tradizione popolare dunque, vera e propria memoria storica di intere generazioni, che occorre custodire e valorizzare, in modo che venga tramandato intatto ai posteri.”

Lo stesso Luigi Solidoro è uno di quegli autori che hanno contribuito ad arricchire la tradizione musicale autoctona, iniziando giovanissimo a comporre marce funebri per la Settimana Santa gallipolina. Già nel lontano 2001 scrive Il pianto della Vergine per la processione del Venerdì Santo organizzata dalla Confraternita di Santa Maria degli Angeli e Mater Desolata per la processione del Sabato Santo, organizzata dalla Confraternita della Purità di Gallipoli. Successivamente, nel 2012 compone la marcia Cristo in croce per la processione dell’Urna realizzata dalla Confraternita del SS. Crocifisso e nel 2016 Presso la croceMarcia e Preghiera per il Venerdì Santo, per solista, coro a due voci miste e banda. Ricordiamo poi i due Oratori Sacri per la settimana santa Il dolore di Maria (2013) e Maria Desolata (2015), il primo su testo dello stesso Luigi Solidoro, il secondo su testo di Don Luciano Solidoro.

G. B.

Il culto all’Addolorata a Gallipoli

Pubblicato il 26 marzo 2021 sulla rivista culturale Il Pensiero Mediterraneo


È documentato che il particolare culto alla Vergine Addolorata ha avuto origine all’inizio dell’XI secolo radicandosi soprattutto a Firenze dove nel 1233 fu fondata la Compagnia di Maria Addolorata, detta anche dei Servi di Maria o dei Serviti, approvata, poi, da Roma nel 1645 con il titolo di Confraternita dei Sette dolori.

Caratterizzata dall’abito nero in memoria del lutto di Maria per la perdita del Figlio, con la celebrazione dei suoi 5 gaudi e dei suoi cinque dolori, diventati poi sette nel 1236, i Serviti, insieme ai Francescani, riuscirono in breve tempo a diffondere, non solo in Italia ma in tutta Europa, il culto all’Addolorata la cui celebrazione, inizialmente, era inserita nella Settimana Santa. Il 9 agosto 1692 Papa Innocenzo XII la posticipò alla terza domenica di settembre, mentre nel 1714 la Sacra Congregazione dei Riti la spostò al venerdì che precede la Domenica delle Palme, con l’approvazione del culto come Celebrazione dei Sette Dolori di Maria. Infine, nel 1750Filippo V di Spagna stabilì per tutto il suo regno che la festa doveva tenersi il 15 di Settembre, data confermata definitivamente da Papa Pio VII il 18 settembre 1814 e successivamente da Papa Pio X nel 1913, non più come Memoria dei Sette Dolori ma come Beata Vergine Maria Addolorata.

Tuttavia, permangono in molte parti d’Italia, come anche a Gallipoli, le celebrazioni nelle date antiche, ossia nel periodo quaresimale. Questo culto ebbe un’incredibile diffusione in tutti gli strati della popolazione e portò in breve tempo all’istituzione di numerose confraternite dedicate a Maria Addolorata e ai Sette dolori della Beata Vergine. Questa forma devozionale, grazie anche al contributo di San Bernardo e Sant’Anselmo, trovò terreno fertile nella composizione delle Laudi popolari medioevali ispirate proprio al pianto della Madonna ai piedi della Croce. Uno dei primi componimenti fu il Liber de passione Christi et dolore et planctu Matris eius di autore anonimo.

Strettamente legato al culto dell’Addolorata è da sempre lo Stabat Mater, componimento poetico medioevale in latino che, essendo una Sequenza (ovvero un canto responsoriale), veniva cantato o recitato durante la celebrazione eucaristica prima della proclamazione del Vangelo. La paternità è attribuita generalmente al Beato Jacopone da Todi, ma assegnato anche a San Gregorio MagnoInnocenzo IIIBernardo di Clairvaux e San Bonaventura. Sin dal XIV secolo quest’opera è stata una delle più amate espressioni della devozione religiosa popolare, divenendo l’emblema del culto per la Vergine Addolorata ed è stata utilizzata anche nel rito della Via Crucis e durante la processione del Venerdì Santo. Con la riforma del Concilio di Trento (1545 – 1563), convocato per reagire alla riforma protestante di Martin Lutero, vennero eliminate dalla liturgia quasi tutte le Sequenze, incluso lo Stabat; ma, l’attaccamento popolare a tale componimento, mai dimenticato dai fedeli, portò Benedetto XIII, nel 1727, a reintrodurlo nel Messale.

Dal punto di vista compositivo, il testo è composto da 20 brevi strofe costituite da due versi ottonari e da un verso senario sdrucciolo. Idealmente si può suddividere in due parti: la prima, che comincia con le parole Stabat Mater dolorosa, è una meditazione sulla sofferenza patita da Maria nell’assistere alla Crocifissione del Figlio; la seconda, che inizia con le parole Eja, Mater, fons amoris, è un’invocazione affinché Maria ci renda partecipi al suo dolore e alle pene patite da Gesù, nella speranza di condividere la gioia del Paradiso. La bellezza e l’intensità drammatica del testo hanno portato i più grandi musicisti di tutte le epoche a musicarlo, da A. Scarlatti a G.B. Pergolesi (composizione che gli fu commissionata nel 1736 dalla Confraternita di Santa Maria dei Sette Dolori a Napoli), da A. Vivaldi a F.J. Haydn, a L. Boccherini, A Salieri, G. Paisiello, G. Rossini, S. Mercadante, F. Schubert, G. Verdi, solo per citarne alcuni, creando opere di altissimo livello e ancora oggi, a distanza di secoli, eseguite.

Gallipoli, il culto per l’Addolorata è da sempre curato dall’antica Confraternita della Misericordia (sorta presumibilmente nel primo trentennio del XVI secolo); nel giorno della festa, venerdì che precede la Settimana Santa, dopo la celebrazione eucaristica di mezzogiorno presieduta dal Vescovo della Diocesi, la Confraternita è solita far eseguire lo Stabat Mater musicato per Voci soliste, Coro ed Orchestra dal maestro gallipolino Giovanni Monticchio (1852 – 1931) e che, ancora oggi, è molto caro a tutta la cittadinanza che ne attende l’esecuzione con fervida attesa. In verità, fonti storiche riportano già nel Settecento l’esecuzione a Gallipoli di Frottole sacre, ovvero composizioni strofiche con accompagnamento orchestrale derivanti proprio dalle Laudi medievali. Dai documenti conservati nell’archivio della Confraternita della Misericordia, infatti, emerge che nel 1752 fu eseguita una Frottola composta dal maestro gallipolino Nicola Caputi (1724 – 1794).

Molte sono state le composizioni che si sono alternate nei secoli in questo giorno solenne; nel 1942, infatti, lo storico e memorialista Ettore Vernole (1877 – 1957) scriveva: “Attualmente si conservano e si eseguono le Frottole superstiti alle dispersioni, cioè quelle di Ercole Panìco (1835 – 1891) e del Bianco (1859 – 1920), nonché lo Stabat del Panìco e quello assai gustato del Monticchio (1852 – 1931)”. Parlando dei testi poetici, poi, scriveva ancora: “Per le parti cantate nella Frottola gareggiarono con i versi i più appassionati poeti gallipolini, primi fra tutti i Coppola, anche il giudice Giovan Battista De Tomasi col titolo “Le lagrime dell’Addolorata” (cronache del Patitari, successori, pag. 82) e negli ultimi decenni Alberto Consiglio, la prof.ssa Caterina Coluccia, Don Luigi D’Amato e altri”.

Purtroppo, però, ad oggi sono giunte a noi solo quattro composizioni: “Mira, oh fedel!” di Vincenzo Alemanno (1875) conservata presso l’archivio storico della Confraternita delle Anime del Purgatorio, “Ahi, sventura!” (non è chiaro se del 1884 o del 1886), “L’han confitto!” (1893) e “Una turba di gente” (1899) di Francesco Luigi Bianco, conservate presso l’archivio storico della Confraternita del Monte Carmelo e della Misericordia che ne organizza l’esecuzione annualmente, in alternanza con lo Stabat Mater del Monticchio.
Risulta, quindi, alquanto singolare il fatto che si sia dispersa proprio la composizione del Panico che, secondo il Vernole, era la più gradita al pubblico; infatti, successivamente, parlando di questo musicista, specifica: “Le composizioni musicali di Ercolino furono innumerevoli […] son conservate e ancora desideratissime ed eseguite le composizioni di alcuni Inni a Santi, di un Inno per il Venerdì Santo, e la più bella delle Frottole che ancor oggi si gusta. Questa ultima gli fu chiesta e pagata con molto anticipo […] e fu composta [dal Panìco] in una sola notte”.

A ben vedere, di tale composizione si trova riscontro negli Annali della Confraternita, e precisamente in un verbale riguardante i festeggiamenti per l’Addolorata del 1882, dove, confermando la tesi del Vernole, si legge: “… giunta la processione in Sant’Agata si cantò la Frottola, musica fatta in questo anno dal m° Ercole Panìco, il quale ha ricevuto perciò il pubblico applauso. In tutte le tappe della processione si cantò la Frottola ed il pubblico si accalcava in ogni chiesa per sentire la tanto piacevole musica”. Purtroppo, però, di tale spartito si sono perse le tracce. La speranza di chi scrive è da anni quella di riuscire, prima o poi, a ritrovarlo e a godere di nuovo di tale bellezza.

Luigi Solidoro

L’uomo Beethoven

Pubblicato il 31 gennaio 2021 sulla rivista culturale Il pensiero mediterraneo


Il 17 dicembre scorso, nel giorno del suo battesimo, in tutto il mondo si è festeggiato il 250esimo anniversario della nascita di Ludwig van Beethoven, compositore che rappresenta un pilastro fondamentale nella Storia della musica.

Egli fu un grande innovatore nella forma e nel sentimento, completando ed esaurendo il Classicismo, preparando il Romanticismo e donando alla musica una buona dose di sperimentalismo che la condurrà alla crisi estetica manifestata successivamente da BerliozWagner e Schoenberg. La forzatura che attuò nelle forme classiche non fu mirata ad un’innovazione fine a sé stessa, ma rappresentò una vera e propria esigenza derivante dalla voglia di comunicare stati d’animo interiori ed eventi mai descritti in musica prima d’allora. Egli con le sue opere esternò la più grande carica e varietà di emozioni, solcando i mari dell’ira incalzante, dell’umore litigioso, dell’esaltazione, della tenerezza e dell’angoscia profonda.

In Beethoven, il confine tra pazzia e genialità in preda all’ispirazione non è stato sempre facile da identificare. Osservando i suoi modi burberi, le sue rudi abitudini (si raccontava che camminasse frettolosamente per strada di notte andando avanti e indietro, agitando le braccia, brontolando e parlando tra sé e sé) ed i suoi frequenti attacchi d’ira bestiale, è comprensibile immaginare come sia stato difficile per i suoi contemporanei accettare l’idea che tale “individuo” potesse scrivere musica di così alta bellezza e profondità spirituale.

Nelle sue composizioni, alla forza bruta che urlava la sua collera al mondo si contrapponeva lo spirito innocente di fanciullesca dolcezza; una parte di lui era quasi insensibile, egoista, arrogante a tal punto che la sua famiglia lo soprannominava “dragone”; un’altra parte, invece, era timida, innocente, generosa, amorevole, nobile. Vien da pensare che sicuramente angelo e demone agirono in lui contemporaneamente per creare uno dei più grandi geni musicali della storia dell’umanità. Era anticonvenzionale, presuntuosamente moralista, fortemente indipendente e visse la sua vita al limite della pazzia che solo nell’arte, attraverso un durissimo lavoro, riuscì a trovare ordine e pace.

Crebbe triste e solitario in una famiglia povera, con un padre austero, severo e dedito all’alcool, ed una madre gentile ma depressa; da piccolo il suo unico svago fu il clavicembalo e suo padre, avendo intuito il suo talento, cercò di trarne guadagno esponendolo sul mercato musicale come una vera e propria merce da vendere, proponendolo come bambino prodigio e obbligandolo a studiare anche di notte. Questi terribili sforzi consumarono la sua gioventù ma, al tempo stesso, forgiarono in lui un carattere di ferro, facendolo giungere alla convinzione che nella vita bisognasse soffrire per poter ottenere qualcosa. Fu perennemente innamorato, anche in modo estremo, ma quasi sicuramente solo in maniera platonica.

Trasferitosi a Vienna nel novembre del 1792, quasi ventiduenne, nel giro di pochissimo tempo Beethoven divenne concertista di pianoforte assai applaudito e, per così dire, alla moda, infiammando quel pubblico abituato ad ascoltare l’eccellente musica degli illustri J. Haydn (che per un breve periodo fu suo maestro) e W. A. Mozart, morto proprio l’anno prima. Nel giro di poche settimane la sua irresistibile veemenza pianistica gli aprì le porte dei più ambìti palazzi nobiliari viennesi: si diceva che nessun esecutore avesse mai avuto tale forza e così tanta immaginazione.

Vi era qualcosa di meraviglioso e sublime nel suo modo di suonare che andava ben oltre la bellezza e l’originalità; si narra che una sera fece un’esecuzione talmente commovente che gli spettatori scoppiarono in lacrime. Abbandonò presto le consuete forme musicali che imprigionavano il suo estro per ricercare e sperimentare forme nuove e sempre più ampie. Le sue composizioni, infatti, cominciarono ad avere sempre più vigore, fantasia, eccitazione; ricercava un suono talmente pieno e forte da far tremare i lampadari presenti nei grandi saloni nobiliari; questo, però, faceva storcere il naso a molti critici musicali e a quei musicisti spaventati da tanta impetuosità.

La sua determinazione non gli diede un’immediata gratificazione, ma lo portò al successo. Contrariamente alla tradizione, che testimonia l’indigenza di quasi tutti gli artisti, non visse in povertà ma fu prosperoso e per un certo periodo ebbe anche la servitù. Il suo impegno era costante e trascorreva le giornate ad impartire lezioni di pianoforte, dirigere orchestre, assistere alle prove, litigare con i suoi editori, mantenere una fitta corrispondenza, leggere testi di filosofia, tenere contatti con gli amici, scontrarsi continuamente con i suoi mecenati ed andare continuamente a caccia di donne.

Ben presto, però, cominciò ad avere il più tragico dei problemi per un musicista: un fastidio all’orecchio sinistro che, pochi anni dopo, comprometterà totalmente il suo udito. Inizialmente ebbe difficoltà ad udire i suoni acuti, poi cominciò a sentire continuamente ronzii e dolori; questo problema cominciò quando aveva ventisei anni e, poco alla volta, la perdita fu irrimediabile e definitiva. I medici non gli furono di grande aiuto, ritenendo che non vi fosse nulla da fare. Beethoven si sentì quasi mutilato, sminuito e, vergognandosi profondamente, fece di tutto per nascondere la sua disabilità. La sua attività di pianista ne risentì tantissimo e visse sempre nell’incubo di poter perdere anche la capacità di comporre.

Fu così che nell’autunno del 1802, quasi vicino al suicidio, si trasferì temporaneamente in un piccolo villaggio vicino a Vienna chiamato Heiligenstadt, per allontanarsi dai rumori della città e dalle continue relazioni sociali che essa imponeva. Qui scrisse un’accorata lettera indirizzata ai suoi due fratelli, mai spedita, che prese il nome di Testamento di Heiligenstadt e dalla quale si può comprendere lo stato d’animo del sommo compositore:

“Oh, voi uomini che mi considerate litigioso, permaloso o misantropo, come male mi avete giudicato. Voi non conoscete la ragione segreta. Obbligato ad accettare la prospettiva di una infermità permanente, ho dovuto immediatamente escludermi dalla vita e vivere in solitudine. Per me non ci possono essere relazioni sociali ed umane, conversazioni e reciproche confidenze. Quando sono in compagnia sono assalito da una grande ansietà per la paura di poter rivelare la mia condizione. Che umiliazione quando qualcuno che è di fianco a me può sentire un flauto lontano, mentre io non riesco a sentire proprio nulla. Queste esperienze mi hanno portato vicino alla disperazione e sono giunto sul punto di porre termine a questa vita. Solo la mia arte mi trattiene dato che mi sembra impossibile lasciare questo mondo prima di aver composto e prodotto tutto ciò che mi sento di dover realizzare.”

Nel 1814 fu costretto ad abbandonare definitivamente la sua carriera di pianista e di direttore e nel 1818 si poteva comunicare con lui solo tramite i famosi quaderni di conversazione. Essere sordo per un musicista è come essere cieco per un pittore e sembrava una disabilità destinata a impedire l’atto compositivo. Ma, racchiuso in sé stesso, Beethoven affrontò la sua malattia con una esplosione interiore di creatività: passava tutto il suo tempo a comporre, la sua frenesia immaginifica si intensificò e le idee musicali gli attraversavano la mente come sciami e, quando veniva il momento di scriverle, le analizzava e le riguardava con stizzosa frenesia ed estrema accuratezza, cancellando e riscrivendo un passaggio decine di volte prima di raggiungere la stesura finale.

In una conversazione con un amico ritroviamo la descrizione del processo creativo descritto dallo stesso Beethoven: 

“Non posso dire da dove vengono le mie idee. Mi giungono improvvise direttamente ed indirettamente. Riesco quasi a prenderle tra le mani. Sono risvegliate dagli stati d’animo e tramutate in toni e suoni, rombano e infuriano fino a quando per me prendono forma di note… (omissis) … Dal fuoco dell’entusiasmo devo liberare la melodia in tutte le sue direzioni. La inseguo, la catturo ancora. La vedo volare via e sparire. La intravedo nuovamente. Sono costretto a moltiplicarla e alla lunga la conquisto… (omissis) … L’idea di base non mi lascia mai. Sorge, cresce verso l’alto e io posso vedere e sentire la figura mentre il tutto prende forma e si fonde in un’unità. Tutto quello che devo fare successivamente è trascrivere”.

Nonostante la sua sordità, il senso del suono era chiarissimo e, con l’aiuto del cosiddetto orecchio musicale interno che aveva sviluppato negli anni precedenti, Beethoven immaginava toni e note e riuscì a comporre un’immensità di opere che aprirono la strada ad un nuovo modo di concepire la musica: opere monumentali, sinfonie titaniche, creazioni profonde e di altissimo valore. Molti critici hanno addirittura ipotizzato che nelle sue ultime composizioni parlasse con Dio.

In questo anno segnato dalla pandemia, in cui le norme per limitare il contagio hanno imposto la chiusura dei teatri e la sospensione della musica dal vivo, ognuno di noi ha potuto vivere, seppur in minima parte, quella dimensione beethoveniana, assaporandone l’enorme difficoltà del “silenzio forzato” e dell’isolamento sociale.

Pertanto, proprio in questo momento storico, la lezione impartitaci dall’uomo Beethoven diventa quanto mai preziosa, ricordando all’intera umanità che durante le più grandi tragedie, l’essere umano solo dentro di sé può trovare quell’energia e quello slancio capaci di fargli superare anche le più grandi avversità.

Luigi Solidoro

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